Mercoledì 31 dicembre 2019
Già stanotte che se fa
Io nun c’ho voglia de inventamme niente
Dormirei solamente.
E lascerei le cose come stanno
Anche se è il nostro primo Capodanno,
Se annamo a letto mica casca er monno.
Io dico si noi due stanotte s’addormimo
Ma che famo de strano.
(Franco Califano, Capodanno)
Ah, almeno stanotte voglio distrarmi un po’, pensò Riente Andoni, 48 anni compiuti a settembre, direttore editoriale della casa editrice Asphodel, mentre slanciava in su entrambe le braccia, per darsi una bella stiracchiata alla schiena, gesto comune perfino ai neonati, che, in pochi secondi, fa passare chiunque dallo spaesamento per un corpo che gli è quasi estraneo, all’eccessiva fiducia nelle proprie estensioni, come se qualsiasi soggetto della creazione potesse, sul serio, assurgere al ruolo di uomo di Vitruvio della sua parte di mondo.
Riente, in realtà, non sapeva ancora bene come e con chi passare l’ultimo giorno dell’anno, ci avrebbe pensato poi. Adesso quello di cui aveva davvero bisogno, era una bella dormita, giusto per recuperare le energie ed essere al massimo per la mezzanotte.
Era appena rientrato nel suo appartamento, all’ultimo piano di Via Bistolfi 67, un posto che non aveva nulla di particolare, se non la bella vista e la quasi completa assenza di arredamento.
«Quand’è che ti compri dei mobili?» gli aveva chiesto un giorno Kalos, noto libraio del centro, nonché suo amico storico dai tempi dell’università.
«Quando avrò tempo…», aveva risposto Riente «a meno che tu non voglia regalarmi qualche scaffale.»
«I miei scaffali non si regalano. Anzi, se li vuoi, si acquistano con tutti i libri che ci sono dentro. A occhio e croce fanno 20.000 euro ciascuno», ci aveva scherzato su Kalos.
«Ti ringrazio, ma qui i libri sono l’unica cosa che non manca», gli aveva fatto notare Riente.
In salotto infatti, ai lati di un solitario divano, giacevano centinaia di libri, comprati ovunque o portati a casa dal lavoro, compattati in due grossi container, a cui mancava solo un giro di cellophane per sembrare una fornitura (con tanto di bancale), appena scaricata in casa di Riente, da un immaginario muletto letterario con servizio a domicilio, o da Kalos che, all’improvviso, aveva preso lo scherzo sul serio.
Da quando, sei mesi prima, aveva litigato con sua moglie Andrea ed era andato via di casa per trasferirsi lì, in Via Bistolfi, Riente passava gran parte del tempo libero così, a “giocare” a Jenga o Shangai che dir si voglia, con i libri impilati in quelle due masse compatte, apparentemente granitiche, sulla cui cima faceva ogni tanto bella vista il prototipo di e-reader pieghevole della Xiaomi, al cui sviluppo aveva partecipato in prima persona.
Sarebbe lungo spiegare come possedesse l’arte propedeutica di cercare e trovare un testo, in base alla veloce scansione ottica di dimensioni e colore prevalente della copertina: fatto sta che Riente riusciva sempre a estrarre la “pietra non angolare”. Che fosse posizionato in alto, in basso, al centro o a destra, il “mattoncino”, che sfilava via dalla pila non comprometteva mai l’equilibrio generale con la sua improvvisa mancanza.
Si tolse i vestiti e indossò una tuta comoda. Quel che ci voleva adesso era un bel libro, anzi una lettura “piacevole”, che si facesse apprezzare più per le virtù soporifere, che per le qualità estetiche.
Parlami di battaglie, di re e di elefanti di Mathias Enard sembrava fare al caso suo. Aveva una bella rilegatura in tela nera che era un piacere tenerla in mano: erano anni che non se ne vedeva una così. Non l’aveva pubblicato Asphodel ma chissenefregava, qui era a casa, non a lavoro.
Con pochi gesti eleganti, degni di uno schermidore, estrasse il romanzo di Enard (che aveva subito individuato grazie all’elegante rilegatura) dal container n° 1. Aprì e lesse la prima riga:
La notte non comunica con il giorno. Ci brucia dentro.
«Uhm…» mugugnò perplesso «comincia un po’ troppo bene, non è che poi mi ritrovo a leggere 60 pagine e addio riposo? Dovrei cambiar libro…»
Si diresse con calma verso il container n° 2 ed estrasse, con la pazienza di un archeologo, Zona dello stesso autore, anche qui fantastica rilegatura telata…
tutto è più difficile nell’età adulta, tutto suona falso un po’ metallico come il rumore di due armi di bronzo una contro l’altra ci rimandano a noi stessi senza lasciarci uscire da niente è una bella prigione, viaggiamo con molte cose, […]
Questo promette meglio, fa al caso mio: niente punti, niente lettere maiuscole, niente capoversi per 500 pagine. Il solo pensiero basta, mezzo foglio e sono a posto.
Assicuratosi di aver scelto il “sonnifero” giusto, Riente pensò che forse era meglio cominciare ad organizzarsi per la sera, fare qualche telefonata. Vediamo che fa Cocò ad esempio. Sfilò il telefono dalla tasca dei pantaloni e telefonò all’amica che rispose dopo nemmeno due squilli. Di sicuro aveva già lo smartphone in mano: aveva appena terminato una chiamata, oppure stava scrivendo uno dei suoi 100 messaggi al minuto.
«Pronto?»
«Ciao Cocò.»
«Ciaaaooo, scusa, sono un po’ di fretta.»
«Sei sempre di fretta, dovresti esser abituata al ritmo…»
«In effetti non hai tutti i torti…»
«E che volevo sapere che facevi tu per Capodanno…»
«Capodanno? Eh, non so ancora.»
«Sì in effetti sono solo le cinque, per le undici e mezza c’è tempo.»
«Non fai ridere lo sai?»
«Non ho mai fatto ridere e non è mia intenzione.»
«Simpatico e accomodante come sempre vedo. Però, davvero, sentiamoci dopo, perché adesso sai, sono molto impegnata per organizzare questa conferenza per la dissidente indiana del Kashmir: Mente Katta, è appena stata candidata al Nobel per la pace, probabilmente lo vince, non so se ne hai sentito parlare…»
«Mente Katta?» s’interrogò Riente, grattandosi la tempia destra, «il nome non mi è nuovo, mi sembra molto comune, soprattutto come nome di donna. Però no, questa Mente Katta in particolare non ce l’ho presente.»
«Su Riente, non cominciamo, sei meglio di come vuoi sembrare…»
«Che vuoi farci, a me piace esser così, profano fuori, profondo dentro… ma a proposito di Nobel per la pace: sarà mica lo stesso premio che hanno vinto Rabin, Arafat e Barack Obama?»
«Ah, ah», rispose seccata Cocò, «sì proprio quello, e con questo cosa, vorresti dire? Ma ti hanno almeno avvisato che la conferenza la facciamo lì da voi, al Luminarium?»
«Sì, ho sentito dire qualcosa. Ah! Ma chi, quella Mente Katta lì? Ora ho capito», fece finta di sorprendersi Riente, poi continuò più serio: «in ogni caso, per mia fortuna, la gestione dei grandi eventi del Luminarium è appaltata a una società esterna…»
«Dai smettila! Non far lo stupido. Guarda che Mente Katta ha una storia assurda che non te l’immagini nemmeno, poi ti racconto…»
«Non ne dubito, me l’immagino eccome! Anche se io penso che siano le storie normali e ipocrite a mancare, non quelle sincere e assurde, di quelle siamo pieni» rispose Riente, grattandosi la tempia sinistra.
«Non ti seguo…»
«Niente, niente, pensavo ad alta voce. Comunque era solo per sapere che fai a Capodanno. Ti richiamo dopo, quando sei più tranquilla. Ok?»
«Certo. Dai va bene, non sai quante cose devo sbrigare ancora. E tu che fai a Capodanno?»
«Non lo so, appunto per questo ti chiamavo… ma ne parliamo dopo dai!»
«Ok a dopo, ciao, un abbraccio.»
«Aspetta aspetta, mi è venuta in mente una cosa…», la interruppe Riente, grattandosi l’interno coscia, «ma la lana cachemire si chiama così perché la fanno nel Kashmir, perché lì le capre o le pecore hanno una lana speciale? Che dici, posso chiederlo a Mente Katta quando viene al Luminarium?»
«Basta, dai, non rompere! Oppure, se davvero non lo sai, usa Google come tutti. Ti voglio bene, ma adesso ciao, devo proprio andare…»
«Ciao ciao, a dopo.»
«A dopo, ciao.».
Bene, pensò Riente, direi che tra una mente katta e l’altra, le quote di vedere Cocò stasera oscillano tra 1/100 e 1/1000. Forse è meglio provare con Mimì.
Ebbene sì, rispose ad un incuriosito interlocutore immaginario. Ebbene sì, ho due amici che si chiamano Mimì e Cocò. Non che siano i loro veri nomi (del resto ormai quasi dimenticati), ma, nel nostro giro, sono semplicemente Mimì e Cocò.
La leggenda narra che a Mimì il nomignolo sia stato appioppato da adolescente, quando si prese un’inspiegabile cotta per Mimì Ayuhara, la giocatrice di pallavolo del famoso cartone animato.
Tutti ci siamo sempre chiesti come avesse potuto infatuarsi di un manga, in particolare di un personaggio così chiaramente frigido come Mimì Ayuhara, lei, le sue braghette bianche sudate e suoi occhi grandi come capesante, buoni solo per piangere.
Dal nostro punto di vista, era un po’ come trovare arrapante Audrey Hepburn: elegante, eterea e affascinante quanto si vuole, ma eccitante proprio no. Audrey Hepburn, una di quelle donne eteree, quasi come l’etere stesso, tanto eteree ed evanescenti che senza abiti non esistono. Come dire: sotto il vestito niente, ma non come nel film Sotto il vestito niente (dove a mancare è solo l’intimo), ma proprio niente nel vero senso della parola. Niente, nulla, nada, niente di niente!
Com’era possibile, ci chiedevamo ancora, che qualcuno potesse provare un trasporto erotico per Mimì Ayuhara, in anni in cui sugli stessi schermi scorrazzava Lamù in bikini leopardato, elargendo scosse elettriche di gelosia al povero Ataru Moroboshi?
Per non parlar del fatto che Mimì Ayuhara, nell’originale si chiamava in realtà Kazue. E si sa che in Italia si può tollerare un cognome che echeggi culo, come Kohl o Culianu ad esempio, ma mai e poi mai uno che contenga allo stesso tempo una k e una z: un cognome che sa di culo va bene, ma uno che sa di “kazzo” proprio no, è immediatamente cassato dagli esperti di marketing, gli stessi che però, da sette anni a questa parte, certo per renderle più indigeste, ci fan servire le “esclusive” sul terrorismo da tale Wanda Katz. Cosa dire? Tanto di cappello a Fellini per aver osato addirittura un roboante Xavier Katzone ne La città delle donne.
A parte le divagazioni, quel che è certo è che, fin dai tempi di Kazue, il nostro Mimì è rimasto indubbiamente un po’ imprigionato in questi amori insensati: si è sempre infatuato per persone, cose e idee politiche soprattutto, delle quali non valeva assolutamente la pena infatuarsi. Anche se poi è bravissimo ad argomentare le sue ragioni. E quasi sempre una logica in effetti c’è, ma anche quella è un po’ una logica da manga, con ellissi troppo iperboliche perché uno possa prendere il nostro Mimì sul serio.
La storia del nome di Cocò è molto più semplice. L’abbiamo chiamata così perché da sempre fan dei Sonic Youth. Quando Kim Gordon e Thurston Moore hanno avuto la loro prima e unica figlia, Coco per l’appunto, quasi immediatamente abbiamo ribattezzato Coco la nostra Coco, che non si chiamava ancora così, ma in un altro modo normale, che adesso nessuno ricorda più.
Poi, dato che nel giro c’era già un Mimì e, a livello cultural-popolare suonava proprio bene, aggiungemmo un accento per italianizzare un po’ il nome di battaglia, così come avevano fatto i doppiatori di Atakku Nanbā Wan, trasformando la frigida Ayuhara Kazue in una più digeribile Mimì Ayuhara.
Da allora Mimì virgola Cocò sono diventati Mimì & Cocò, una coppia inseparabile, anche se poi, in fondo, non erano più intimi tra loro due di quanto non lo fossero con tutti gli altri.
E pensare che, per lungo tempo, non hanno nemmeno vissuto nella stessa città. Nessuno li vedeva mai assieme. O Mimì o Cocò. Mimì e Cocò in coppia era una rarità che potevamo goderci, al massimo, un paio di volte all’anno.
A parte il “nome d’arte”, l’altra cosa che accomuna l’improbabile coppia sono i tatuaggi: Cocò sostiene di avere un drago tatuato sulla schiena, ma io non l’ho mai visto. Mimì ha un tatuaggio sul braccio destro che neanche a dirlo è una palla da volley. E questo purtroppo l’ho visto, sotto la doccia, dopo qualche partita di calcetto.
Mentre Riente chiariva gli ultimi dettagli al suo interlocutore interiore, il telefono squillava e Mimì si faceva attendere.
«Pronto?» rispose finalmente.
«Ciao Mimì.»
«Ciaaaooo, come stai? Scusa sono un po’ di fretta…»
E ti pareva – concluse già rassegnato Riente, sapendo che la telefonata non sarebbe durata più di 30 secondi – ci sarà pure un motivo perché si chiamano Mimì e Cocò, no? ma perché vivono tutti sempre, come se scappasse loro di far pipì?
«Pronto, pronto? Ci sei?»
«Ci sono, ci sono.»
«Tutto a posto?»
«Sì, sì, tutto a posto. E che volevo solo sapere se poi hai deciso cosa fare per Capodanno… ieri non mi hai detto niente poi.»
«Capodanno? Eh, non so ancora di preciso, ma pensavo di andare a questa festa gay di mezzanotte al Circolo Proustitude. Mi son dato appuntamento lì con tutti gli amici del Partito.»
«Ah questo Partito! Ma sicuro che sia davvero un buon “partito”?»
«Oh mica devo sposarmelo, il “Partito”…»
«Mah, sarà… a me sembra che ‘sto Partito non sia mai partito, mai arrivato, sicuramente mai pervenuto…»
«Ah ah… simpaticone… vuoi darti al cabaret Riente?»
«No solo al calembour… tra parentesi io continuo a non capire il gusto perverso di frequentare i sodomiti, quando a te piacciono le donne…»
«Sodomiti, che termine medievale e scorretto! Ma sai com’è, circondato da sodomiti mi sento più tranquillo, non mi capiterà di dover dire a una donna che è bella e intelligente solo perché mi piace…»
«Ma perché le donne non ti piacciono perché sono belle e intelligenti?»
«Non esattamente, ma è inutile parlarne con te, per quel che ne capisci tu di donne, sei stato assieme a loro pure troppo…»
E certo! – esclamò dentro di sé Riente – invece tu che da adolescente ti sei innamorato di un manga e hai un pallone da volley tatuato sul braccio destro, hai capito tutto.
«Sarà… però, in effetti, a giudicare dai risultati, non ti si può dare del tutto torto», rispose comunque misericordioso.
«E tu che fai?» gli chiese a sua volta Mimì.
«Non so ancora. Ho sentito anche Cocò, ma ha fatto la vaga. È molto occupata con una certa Mente Katta.»
«Ah sì, ho sentito, è per la settimana prossima. È da te al Luminarium, no? Mi ricordo bene?»
«Sì, sì al Luminarium, all’ultimo piano. Per fortuna non son coinvolto nell’organizzazione…»
«Comunque io sono lì al Proustitude se vuoi passare.»
«Magari faccio un salto» concesse Riente, poco convinto.
«Dai vieni, non fare il prezioso maschio sciovinista come al tuo solito. Poi con i tuoi baffi fai molto Castro clone…» insinuò Mimì.
«A parte che Castro è morto e portava la barba, mi pare che pure Freddie Mercury se ne sia andato da un bel pezzo…»
«E con questo?»
«Castro clone è un termine desueto, oltre ad esser stato utilizzato quasi solo esclusivamente negli anni ‘70, da una sottocultura molto marginale in California. Il termine assurse a breve gloria appunto perché, all’improvviso, sorprendendo tutti i suoi fan, Freddie Mercury abbandonò all’improvviso il look glam per baffi e capelli corti, nello stile macho dei gay californiani, definito appunto Castro clone…»
«Ma tu a far puntualizzazioni inutili con linguaggio stile Wikipedia ci godi?» chiese Mimì, quasi con disappunto.
«Un po’ sì ci godo» rispose Riente, trotterellando con i piedi, come volesse deridere l’amico di nascosto, poi aggiunse, con finta serietà: «mi raccomando, anche se io non vengo, fai la scorta di piume di struzzo da piantar nel didietro degli avventori, così possono sculettare meglio!»
«Ma non fare il cretino! Tu non puoi proprio perdere occasione per inimicarti l’umanità…», rispose Mimì che non sapeva più se ridere o irritarsi.
«Io nemico? Ma per favore Mimì! Ma se mi considero l’ultimo protettore di sfinteri bui e uccellini gonfiabili, specie in via d’estinzione, di cui nessuno si occupa più!»
«Non puoi cavartela sempre così, con la scappatoia linguistica. Sei peggio di Kalos. State diventando l’accolita dei rancorosi voi due. Su, su, basta adesso, riponi il personaggio nell’armadio e fammi andare che ho un casino di cose da sbrigare prima di stasera…»
Com’è che tutti hanno da fare tranne me? – non poté fare a meno di notare Riente – eppure ho un lavoro anch’io…
«Certo, certo. Allora forse ci vediamo al Proustitude. A dopo.»
«A dopo ciao, chiama prima» si raccomandò Mimì.
«Vabbene, vabbene. Ciao.»
«Ciao.».
Sì, in effetti, c’è proprio un motivo perché si chiamano Mimì e Cocò, sussurrò tra sé e sé Riente. Meglio non puntare su nessuno dei due per stasera. Meglio tornare al progetto di farmi un sonno. Sì, ci vuole proprio che mi riposi un po’ per svegliarmi in forma e fare un’unica tirata fino a domani mattina. Magari dopo chiamo Kalos: lui problemi di compagnia e di fretta non ne ha di sicuro.
Nel frattempo si era ricordato che aveva sotto mano un sonnifero migliore perfino di Zona. C’era quel saggio sul comodino in camera da letto, che d’interessante aveva solo il titolo.
Doveva comunque essere un libro di carta che, alla fatica di leggere, aggiungesse quella fisica di divaricare le pagine.
Riente era nato e cresciuto con la carta stampata, ma aveva sempre trovato di una scomodità incredibile tenere in mano un libro. Infatti – pur avendo fatto dell’editoria tradizionale il suo lavoro e la sua vita – aveva sempre sognato libri e quaderni di sole pagine dispari, infiniti fronte senza retro, che replicassero, dall’inizio alla fine, la presenza imperativa della copertina. Aveva insomma sempre sognato l’avvento di tableted e-book reader, prima ancora che qualcuno li inventasse.
Per lui l’avvento del libro elettronico voleva dire, prima di tutto, la fine della discriminazione per le parole stampate sulle pagine di sinistra. Finalmente tutte le pagine erano pagine di destra, anche quelle di sinistra, e tutte le pagine erano dispari, anche quelle pari.
Con il suo prototipo Xiaomi la soluzione era un po’ diversa, ma il senso era lo stesso: pagine di sinistra e pagine di destra avevano finalmente lo stesso peso, perfettamente simmetriche, in qualunque punto del libro ci si trovasse; nessuno doveva più farsi i muscoli al polso per leggere disteso e mantenere l’equilibrio tra le 20 pagine lette e le 381 restanti.
Si spostò in camera da letto. Il progetto riposo era leggermente cambiato: stavolta invece che sdraiarsi sul divano, si mise sotto le coperte. In fondo perché fare solo un pisolino? Aveva tutto il tempo di farsi un sonno serio al calduccio.
Si sistemò per bene la schiena con due cuscini, uno più duro sotto, uno più morbido sopra, come piaceva a lui. Aprì Platone suona sempre due volte di Mark Conard, con cui combatteva ormai da quasi un mese:
Una di queste falsificazioni insita nel linguaggio è la distinzione soggetto/predicato. Per esempio, diciamo «un fulmine lampeggia» come se ci fosse un qualcosa o un soggetto fulmine che in qualche modo esegue l’azione di lampeggiare. Analogamente, diciamo «io cammino» oppure «io parlo» oppure «io leggo», come se esistesse un certo Io, sé o soggetto stabile in qualche modo separato da queste azioni.
Era la maledetta pagina 37 (pagina di sinistra) e da un paio di giorni gli occhi rimbalzavano sempre sulle stesse righe a fondo pagina.
In meno di cinque minuti sentì le palpebre pesanti e percepì quel piacevole calore su fianchi e interno coscia, che preludeva sempre al sonno:
insita nel linguaggio è la distinzione
Una di queste falsificazioni insita nel linguaggio è la distinzione
Analogamente, diciamo «io cammino» oppure «io parlo» oppure «io leggo», come se
Una di queste falsificazioni insita
insita
in-sita
in-si–ta
in–-si–––-ta
ta-ta
ta
Buio.